La career coach Zuzana Vyhnánková: “Sono una sostenitrice dei cambiamenti di carriera!”
Zuzana Vyhnánková è una career coach e una psicoterapeuta in formazione. Ha alle spalle un’importante svolta professionale: in passato si occupava di marketing e brand management. Oggi aiuta gli altri – soprattutto i professionisti del marketing – a trovare il coraggio di affrontare piccoli e grandi cambiamenti nel loro percorso di carriera. Grazie agli studi in psicologia applicata e all‘esperienza in diversi settori, offre ai suoi clienti non solo consigli pratici, ma anche una comprensione autentica delle sfide che ha vissuto in prima persona.
Sei una career coach e una psicoterapeuta. Negli ultimi anni, la terapia ha iniziato a sfatare molti pregiudizi e le persone sono sempre meno restie a chiedere aiuto ad uno psicologo. Ma com’è la situazione nel career coaching? I cechi sono aperti a ricevere consigli sulla loro carriera?
La psicoterapia, a differenza del career coaching, è più conosciuta e le persone sanno cosa aspettarsi. Inoltre, riguarda tutti: è utile in diverse fasi della vita e viene utilizzata trasversalmente da persone di ogni età e background. Il career coaching, invece, è ancora poco diffuso. In Repubblica Ceca non è comune chiedere consiglio sulla propria carriera; spesso ci si affida a chiacchierate con amici, un approccio valido ma che fornisce un tipo di supporto diverso rispetto a un percorso strutturato con un esperto.
Inoltre, il career coaching è adatto solo ad una parte specifica dei lavoratori: coloro che vogliono prendere in mano la propria carriera, perché hanno obiettivi e ambizioni ben definiti. Esiste poi un’altra categoria di persone che lavorano senza pianificare attivamente il proprio percorso, lasciandosi guidare dalle opportunità che emergono spontaneamente. Per loro, il bisogno di confrontarsi con un esperto è meno sentito. Il career coaching è quindi particolarmente utile a chi considera il lavoro un pilastro fondamentale della propria vita, un elemento che deve essere appagante, avere un senso e, in alcuni casi, riflettere la propria identità. Tuttavia, il segmento di persone che si rivolge ad un coach è sicuramente meno numeroso rispetto a coloro che intraprendono un percorso di psicoterapia.
Capisco, non per tutti la carriera è una priorità e non tutti vedono il lavoro come la propria realizzazione personale.
Esatto. Come dicevo, il career coaching è utile a chi attribuisce al lavoro un ruolo centrale nella propria vita. Aggiungo anche un altro dato interessante: analizzando le mie statistiche, la stragrande maggioranza dei miei clienti sono donne. Credo che questo dipenda da due fattori. Il primo è esterno: la mia community online è composta prevalentemente da donne, molte delle quali mi conoscono grazie al network “Holky z marketingu”. Il secondo fattore, invece, è culturale: per le donne è più naturale chiedere consiglio, ammettere le proprie insicurezze e confrontarsi con qualcuno.
È un po’ come quando si cerca una strada in macchina. Vediamo un classico cliché: un uomo al volante tende a non voler chiedere indicazioni, mentre una donna probabilmente si fermerebbe a chiedere informazioni. Penso che lo stesso accada con la carriera: gli uomini spesso preferiscono trovare la soluzione in autonomia.
Non potrebbe dipendere anche dal fatto che le donne, dopo il congedo parentale, si trovano più spesso a riflettere sulla propria carriera?
Direi che più che un’opportunità di riflessione, si tratta di una forte pressione che ci costringe a ridefinire il proprio percorso professionale. La pausa lavorativa che le donne ceche affrontano durante il congedo parentale rappresenta uno stop significativo per la propria carriera. Ed è proprio a questo punto che nascono molte delle problematiche per cui le donne cercano supporto.
Nelle aziende, lo sviluppo professionale è solitamente gestito dalle risorse umane (HR). Ma quando è meglio rivolgersi all’HR e quando, invece, è più utile consultare un career coach?
Innanzitutto, l’HR è accessibile solo ai dipendenti. Chi non è attualmente impiegato o si trova in congedo parentale non ha un referente interno a cui chiedere supporto per la propria carriera. Inoltre, sebbene il talent management e lo sviluppo professionale rientrino nelle competenze delle risorse umane, in poche aziende queste attività ricevono l’attenzione che meriterebbero. In molte realtà, l’HR è sommerso da compiti amministrativi e burocratici: gestione dei contratti, firme, onboarding… e raramente ha tempo per occuparsi concretamente della crescita dei dipendenti o per aiutarli a definire il proprio percorso.
Spero che la situazione stia lentamente cambiando, ma ho l’impressione che, almeno in Repubblica Ceca, l’HR non abbia ancora l’influenza necessaria per occuparsi pienamente dello sviluppo professionale. Chi ha bisogno di lavorare sulla propria carriera capisce subito se l’ufficio delle risorse umane della sua azienda può aiutarlo o meno.
Un altro aspetto da considerare è che, anche se un responsabile delle risorse umane fosse davvero motivato a supportare i dipendenti nella loro crescita, proporrebbe comunque solo opportunità interne. Se stai pensando di cambiare azienda o addirittura settore, difficilmente un HR ti sarà d’aiuto, perché il suo ruolo è allineato agli interessi del datore di lavoro.
Ecco perché rivolgersi ad un career coach ha senso in molte situazioni. Ad esempio, se stai pianificando un cambio di settore, se vuoi un punto di vista esterno e imparziale su una dinamica aziendale complessa (conflitti, riorganizzazioni, fusioni…), o se stai cercando un nuovo lavoro. Anche nei periodi particolarmente stressanti, come una fase di licenziamenti o un processo di integrazione tra culture aziendali diverse, un career coach può essere un supporto prezioso – e spesso più rassicurante di una figura interna all’azienda.
Cambiare settore o semplicemente cambiare azienda? È una domanda fondamentale, e la risposta non è sempre immediata.
Il cambio di settore è una scelta impegnativa, che merita una riflessione approfondita. Non voglio scoraggiare nessuno – al contrario, sono una grande sostenitrice della trasformazione professionale e le transizioni di carriera sono la mia specialità. Tuttavia, prima di fare un passo così importante, è essenziale affrontare una serie di domande che aiutino a chiarire se la decisione si basa su motivazioni solide. Mi chiederei, ad esempio: “Come ti è venuta questa idea? Cosa speri di ottenere da questo cambiamento? In che modo la tua situazione migliorerebbe? Come ti immagini il nuovo percorso? Quali risorse hai a disposizione per affrontarlo (esperienze, contatti, certificazioni…)?
Un altro aspetto cruciale è analizzare la motivazione. Spesso chi vuole cambiare settore non è in crisi con la professione in sé, ma con l’ambiente in cui lavora. Mi è capitato più volte, ad esempio, di seguire persone che mettevano in dubbio le proprie competenze perché il loro capo o l’azienda minavano costantemente la loro autostima. Una cliente, con anni di esperienza nel marketing, era convinta di dover cambiare settore, ma scavando più a fondo è emerso che il vero problema era un datore di lavoro tossico, che la faceva sentire inadeguata. In quel caso, la soluzione non era cambiare carriera, ma ridefinire i propri confini e cercare un ambiente più sano e rispettoso.
Allo stesso modo, se il problema è un sovraccarico di lavoro o una cattiva organizzazione aziendale, il cambio di settore potrebbe non essere necessario. Prima di prendere una decisione drastica, quindi, vale la pena fermarsi e valutare se è il lavoro a non soddisfarti o se, più semplicemente, hai bisogno di un nuovo contesto in cui esprimere al meglio le tue capacità.
Oggi è sempre più comune avere più carriere nel corso della nostra vita lavorativa. Quali sono, secondo te, i cambiamenti più significativi che hanno trasformato il mercato del lavoro in questo senso? I tempi in cui i nostri nonni e genitori trascorrevano tutta la vita in uno o due impieghi appartengono ormai al passato.
Posso offrire una prospettiva proveniente dal mondo del marketing, un settore estremamente flessibile in cui, a mio avviso, è possibile costruirsi una carriera molto rapidamente. A patto di trovare la propria strada, avere coraggio, sapersi orientare, essere disposti ad imparare e ad assumersi qualche rischio.
Forse la mia visione è un po’ influenzata, ma credo che cambiare settore sia ormai una cosa del tutto normale. Sono convinta che la carriera debba sempre riflettere ciò che siamo. Nel corso della vita cambiamo prospettiva su noi stessi, la nostra identità evolve, così come i nostri valori. Sarebbe un peccato se il nostro percorso professionale non rispecchiasse questa trasformazione.
Per questo motivo, credo fermamente che riflettere su un cambiamento di carriera abbia senso ed è un modo assolutamente valido per muoversi nel mondo del lavoro. In realtà, non sono molto interessata a cosa dice il mercato. Penso che cambiare e gestire la propria carriera sia la cosa giusta da fare, ed è proprio questo che insegno ai miei clienti. Riesco a trasmettere loro questo mindset in modo tale che, nei colloqui di lavoro, anche una dentista che vuole diventare una marketer sappia presentarsi con sicurezza e convinzione.
Straordinario! Alla fine è del tutto naturale che, nel corso della vita, una persona cambi interessi, valori e priorità. E, allo stesso modo in cui si modificano le passioni, non bisognerebbe avere paura di cambiare anche lavoro.
Ovviamente non vale per tutti. C’è chi, ad esempio, desidera essere veterinario per tutta la vita, e va benissimo così. Ma credo che entrambe le strade meritino spazio e che ormai i recruiter non guardino più con sospetto chi decide di cambiare percorso.
Inoltre, le competenze acquisite in un settore possono rivelarsi preziose in un altro. Tu hai lavorato nel marketing e ora puoi sfruttare questa esperienza per concentrarti su clienti di quell’ambito.
Sì, ottimo spunto! Questo è proprio ciò che trasmetto nei miei webinar, come „Come trovare lavoro nel marketing“ o „Qual è il mio posto nel marketing“, dove spiego che le esperienze precedenti possono essere un’ottima base per specializzarsi in un nuovo settore.
Parlando di cambiamenti lavorativi, esiste una “durata ideale” da trascorrere in un’azienda?
Dipende dal punto di vista. Io tendo a guardare la questione dal lato del lavoratore.
Se parliamo di esperienza utile per il curriculum, in linea generale un anno presso un’azienda è considerato un periodo significativo. Ma se, ad esempio, si partecipa a uno stage di sei mesi su un progetto di grande valore, è sicuramente un’esperienza da inserire. Dipende sempre dal contesto. In alcuni ruoli, un anno può bastare per acquisire competenze e fare un passo avanti, mentre in altri ne servono cinque. E chi lavora nel settore lo sa bene: se una posizione è molto complessa e qualcuno l’ha ricoperta solo per un anno, è chiaro che non ha maturato abbastanza esperienza e viceversa. Non si può generalizzare. Cinque esperienze lavorative diverse di un anno non significano necessariamente instabilità o difficoltà di adattamento.
Anzi, io sostengo chi cambia spesso lavoro. Non credo che le persone debbano restare troppo a lungo in un ruolo che non rispecchia i loro valori o che non offre possibilità di crescita. Se un lavoro non soddisfa le aspettative e non si intravede un miglioramento, perché restare? E a maggior ragione se l’ambiente è tossico.
Mi ha colpito un post sul tuo profilo LinkedIn in cui parli di come finalmente non ti senti più sotto pressione per la performance. Viviamo, però, in una società che pone molta enfasi sul rendimento. Come si può conciliare la salute mentale con la carriera? Hai qualche consiglio?
La chiave è prendere in mano la propria carriera e non lasciarsi trascinare dagli eventi. 😊 Esistono tantissime possibilità: settori diversi, tipologie di contratti, ruoli specifici, culture aziendali differenti, modalità di lavoro flessibili. I fattori da considerare sono tantissimi, quindi se ci si ferma a riflettere con consapevolezza e si cerca di prendere decisioni mirate, è più probabile trovare un contesto in cui ci si sente davvero a proprio agio.
Parlo per esperienza personale: ho fatto un lungo percorso per capire cosa mi fa stare bene. Ho realizzato che preferisco lavorare in un ambiente tranquillo, in una conversazione one-to-one, piuttosto che guidare dibattiti di gruppo o workshop. Allo stesso tempo, mi piace il lavoro strategico indipendente e ho bisogno di bilanciare queste due dimensioni. Per questo è fondamentale capire quali attività ci danno soddisfazione e, se necessario, confrontarsi con qualcuno per avere un punto di vista esterno.
Trovare un lavoro che ci appassiona e ci fa sentire nel posto giusto aiuta a proteggerci dallo stress e dalla frustrazione. È altrettanto vero, però, che spesso il senso di realizzazione professionale può essere un’arma a doppio taglio.
Pensiamo alle professioni di aiuto: chi le svolge trova un grande significato nel proprio lavoro, ma proprio per questo rischia più facilmente il burnout. Se il senso di scopo è troppo debole, ci si svuota; se è troppo forte, ci si sacrifica fino all’esaurimento.
Ecco perché è fondamentale avere più pilastri nella propria vita, oltre alla carriera. Il lavoro può sempre cambiare, si può perdere o rivelarsi diverso da come ce lo aspettavamo. Ma se abbiamo relazioni solide, facciamo sport, abbiamo un cane o ci dedichiamo al giardinaggio, possiamo contare su altre fonti di equilibrio e non crollare del tutto. Un altro aspetto essenziale è riflettere regolarmente sulla propria carriera. Fermarsi a chiedersi: “Sto bene nel mio lavoro? Mi ammalo spesso? Quali problemi affronto più di frequente?” Essere consapevoli di come ci sentiamo aiuta a prendere decisioni migliori.
Infine, se dovessi indicare un unico concetto fondamentale per proteggersi dal burnout, direi: imparare a gestire i propri confini. Stabilire e difendere i propri limiti è la chiave per preservare il proprio benessere mentale e lavorativo.
Quando parliamo di confini, la carriera spesso implica che è necessario superarli. Come capire quando vale la pena spingersi oltre la propria zona di comfort e quando invece è il momento di ammettere che si sta cercando di fare un lavoro che non fa per noi?
Vale la pena mettersi alla prova quando c’è un’intenzione chiara dietro lo sforzo. Ad esempio, voglio acquisire una competenza specifica, imparare ad usare un nuovo strumento, raggiungere un determinato obiettivo economico. A questo deve accompagnarsi anche un orizzonte temporale: per quanto tempo sono disposto a tollerare la fatica prima che diventi insostenibile? Finché c’è un piano e confini ben definiti, il sacrificio ha senso.
Inoltre, ciò che è accettabile cambia con il tempo. A vent’anni può aver senso fare straordinari, dormire su un sacco a pelo sotto la scrivania di una piccola start-up, perché tutti stanno lavorando ad un qualcosa di grandioso. Ma a quarant’anni, con una famiglia e altre responsabilità, avrebbe ancora senso?
E quali sono i segnali che indicano che è ora di cambiare lavoro?
Il primo campanello d’allarme è quando il disagio e lo stress iniziano a manifestarsi fisicamente, per esempio con malattie frequenti. Se il corpo lancia segnali chiari e il problema è riconducibile al lavoro, significa che stai oltrepassando un limite che non può essere ignorato a lungo. Un altro segnale è quando il lavoro rovina gli altri pilastri della tua vita: se mina le relazioni, se toglie spazio a passioni o momenti di recupero, è il momento di fare una riflessione seria.
E poi c’è il burnout. Se avverti i primi segnali, devi agire subito. Non significa necessariamente che devi dare le dimissioni, ma è fondamentale prestare molta attenzione al proprio benessere. Quando il burnout esplode davvero, può metterti fuori gioco anche per un anno intero.
Infine, un segnale forte è la perdita di autostima. Se il tuo impegno non porta mai soddisfazione, se non provi mai la sensazione di aver raggiunto qualcosa, quel lavoro potrebbe diventare un freno per la tua carriera. L’autostima è fondamentale, e se il lavoro la sta distruggendo, bisogna trovare un modo per affrontare la situazione. Altrimenti, il rischio è davvero alto.
Quando si attraversa un periodo di difficoltà psicologica, sia sul lavoro che nella vita personale, ha senso parlarne con il proprio datore di lavoro? O potrebbe essere un’arma a doppio taglio? Qual è l’esperienza delle tue clienti?
Prima di decidere, è utile chiedersi dove il mio stato d’animo potrebbe avere un impatto sul lavoro. Quali aspetti della mia performance potrebbero risentirne? Dove potrebbe emergere un problema? A partire da questa analisi, si può costruire una strategia: ha senso essere trasparenti oppure è meglio gestire eventuali difficoltà in un altro modo? Un altro aspetto da valutare è se nascondere il problema possa peggiorare la situazione. Fingere di stare bene potrebbe portare ad un peggioramento della propria condizione, innescando un ciclo di crisi ricorrenti perché si continuano a oltrepassare i propri limiti. La scelta dipende dall’ambiente e dal tipo di datore di lavoro. La mia esperienza mi dice che molte persone preferiscono non condividere questi problemi con il proprio capo.
È per paura di pregiudizi da parte del datore di lavoro?
Non ho dati certi su questo, ma le mie clienti tendono a gestire queste difficoltà in autonomia, senza coinvolgere l’azienda.