Comunicazione aziendale con Šimon Steffal
Šimon è uno psicologo e un mentore con lunga esperienza in comunicazione e formazione. Grazie alla sua passione per l’apprendimento e alla sua ampia esperienza lavorativa, nel 2019 ha fondato l’azienda Mindset Mentors, attraverso la quale insegna a diversi team aziendali a comunicare con rispetto, chiarezza, trasparenza, e con un obiettivo preciso: ottenere risultati migliori e favorire la crescita.
“L’ego è, semplicemente, l’inizio e la fine di tutto,” dice, spiegando come dare un feedback diretto, ma gentile. Inoltre, racconta di aver vissuto momenti in cui, durante un audit di comunicazione, è stato congedato con frasi di questo genere: “Non ho intenzione di ascoltare questa roba!”
Oggi, termini come coaching, mentoring e terapia sono ovunque. Sembra quasi che chi non ha un coach sia fuori dal gioco. Ma qual è la differenza tra queste pratiche e come scegliere quella giusta?
In poche parole: dal punto di vista legislativo, nessuna di queste attività è regolamentata in modo specifico. Ciò significa che chiunque può definirsi coach, mentore o terapeuta, con o senza qualifiche adeguate. Per questo motivo è essenziale scegliere con attenzione, utilizzando criteri di valutazione chiari. La formazione è un buon punto di partenza.
Nel caso del terapeuta, ad esempio, è importante distinguere questa figura dallo psicoterapeuta, che ha seguito una formazione psicoterapeutica accreditata e ha conseguito un titolo di laurea magistrale. Lo stesso vale per i coach: hanno una certificazione? Rilasciata da chi? Hanno il supporto di associazioni internazionali come ICF o EMCC? In caso affermativo, si può essere sicuri che abbiano completato un programma di qualità, abbiano una supervisione, e rispettino un codice etico professionale.
Per i mentori, la questione è molto più complessa, poiché non esiste una regolamentazione formale. In questo caso, l’aspetto principale da considerare sono le esperienze specifiche del mentore. Voglio ricevere supporto in marketing? Voglio capire come si gestisce un team di marketing?
In questo caso, è essenziale che chi mi offre consulenza, abbia almeno 10 o 15 anni di esperienza nel settore, un percorso professionale solido e risultati concreti. In altre parole, deve avere un bagaglio di conoscenze ed esperienze che può davvero trasferire ad altre persone. Non ha senso, infatti, che a insegnarmi la gestione di un team sia una persona che non ha mai gestito un team e che lavora nel campo solo da un anno. Questo sarebbe assurdo.
Ricapitoliamo. La prima considerazione da fare è chi è questa persona, quali competenze possiede, se sono certificate da un ente affidabile e quali esperienze ha accumulato.
Il secondo criterio di scelta è capire perché ne ho bisogno e cosa sto cercando. Se mi trovo in una situazione di vita difficile e non ho chiaro come procedere, ha senso optare per la psicoterapia. Se mi trovo a un bivio o sento solo il bisogno di fare chiarezza mentale, allora il coaching è un’ottima scelta. Se invece voglio acquisire nuove competenze, imparare un insieme di abilità specifiche e risparmiare tempo – arrivando a un risultato in un anno invece di cinque – allora un mentore esperto è ciò che fa al caso mio. Un vero mentore mi aiuterà a trovare la strada e ad avanzare rapidamente. Questo è il principio di base. La terza cosa, che ci riporta al primo punto, è che prima di intraprendere qualsiasi percorso, bisogna rifletterci bene e verificare con chi si sta per iniziare. È davvero importante evitare di cadere nelle mani di “guru” manipolatori o truffatori, che cercano solo di rubare soldi alla gente.
Esatto, è proprio a questo che volevo alludere. Oggi chiunque può definirsi mentore, e non è facile capire a chi possiamo davvero affidarci.
Tra le tre aree, quella del mentoring è probabilmente la più complessa. Il coaching ha ormai una lunga tradizione e il supporto di alcune organizzazioni di riferimento. La psicoterapia, invece, segue un sistema di formazione certificato e accreditato; l’ideale è che il terapeuta sia anche psicologo clinico o abbia comunque una formazione in psicologia. Per un mentore, l’unica cosa che conta è se quella persona sa davvero di cosa sta parlando e ha le esperienze necessarie. Un altro aspetto fondamentale nella scelta, sia che si tratti di un terapeuta, un coach o un mentore, è verificare se c’è un’affinità personale. Il fatto che una persona abbia esperienza non significa che ci troveremo bene sul piano umano. Allo stesso tempo, però, l’affinità personale può essere rischiosa se l’altra persona è solo un abile manipolatore senza reali competenze, interessato a sfruttare economicamente la relazione. Questi individui sanno costruire legami di dipendenza, rendendo molto più difficile rendersi conto della manipolazione.
Mi hai dato lo spunto perfetto per un’altra domanda. Tra il cliente e il professionista si crea sempre una certa relazione, un rapporto di fiducia. Ti è mai capitato che le persone iniziassero a confidarti anche aspetti personali, magari più adatti a uno psicologo? E come si gestiscono situazioni del genere?
Una situazione del genere si verifica praticamente in ogni professione in cui un professionista fornisce aiuto, ed è proprio in questi casi che un buon professionista deve fare riferimento al codice etico. Che si tratti di mentoring, business coaching o altro, arriva un momento in cui si crea una connessione stretta con l’altra persona. Qui voglio fare una piccola deviazione, perché è importante comprendere una cosa: questo accade anche a chi insegna le lingue, per esempio, con lezioni individuali. Il principio di fondo è che si crea una situazione in cui si offre completa attenzione all’altro. E oggi, quando succede di avere la completa attenzione di qualcuno, che è lì solo per te? È un contesto straordinario, soprattutto in un’epoca come la nostra.
È vero. Oggi il tempo è una risorsa preziosa.
E quando si crea sintonia sia sul piano personale sia professionale, si instaura rapidamente un ambiente di fiducia e sicurezza. Di conseguenza, le persone iniziano ad aprirsi e confidarsi.
A questo punto, entrano in gioco due elementi fondamentali. Primo: è necessario stabilire i limiti della collaborazione sin dall’inizio. Secondo: bisogna saper riconoscere quando questi limiti vengono superati, metterli in chiaro e avere l’umiltà di dire: “Non posso più aiutarti, perché va oltre ciò che posso fare“. Più tempo si aspetta, più la situazione diventa complicata.
A tutti è capitato o capiterà, quindi è essenziale essere preparati ad affrontare una situazione del genere. Il rischio più grande è quello di provare ad aiutare in buona fede, ma in ambiti che non comprendiamo a fondo. Si tratta di una strada pericolosa. Sono piuttosto critico nei confronti di coach privi di formazione psicologica o psicoterapeutica, perché non hanno le competenze necessarie per gestire il benessere mentale e psicologico. Questa mancanza di preparazione può essere dannosa e irresponsabile. Anche se l’intenzione è quella di aiutare, bisogna chiedersi se si sta davvero facendo il bene dell’altro. C’è un’idea fondamentale che dovrebbe guidare ogni professione di aiuto: non creare dipendenza. L’obiettivo è rendere il cliente autonomo. Se una persona sviluppa una dipendenza e pensa “Senza di lui non ce la faccio”, significa che qualcosa è andato storto. La mia capacità di essere utile deve aumentare, non diminuire, durante la collaborazione. E purtroppo, questo principio è proprio ciò su cui fanno leva i manipolatori e i “guru” senza scrupoli.
Il terapeuta, coach o mentore non si trova sempre nella posizione di fare complimenti. Spesso deve dire cose che l’altra persona non vorrebbe sentire. Come si può comunicare qualcosa di spiacevole in modo che l’interlocutore lo accetti? Ti è mai capitato che qualcuno ti cacci via dicendo: “Non voglio ascoltare questa roba!”?
Certo. Nel mentoring è ancora più comune che nel coaching. Infatti, il processo di coaching crea principalmente spazio per l’altro. Il coach non dà consigli su come fare le cose, ma offre strumenti, stimola, crea uno spazio in cui l’altro possa trovare le risposte da solo. Il terapeuta è un po’ diverso e dipende dal tipo di approccio terapeutico scelto. L’obiettivo del mentore è aiutare l’altro a raggiungere i suoi obiettivi in modo indipendente nel minor tempo possibile. E uno degli aspetti fondamentali del mentoring, secondo me, è che non mentiamo, non manipoliamo e non giriamo intorno alle cose.
Non incoraggiamo l’altro a pensare di essere migliore di quello che è al momento. La cosa principale per noi è dare un feedback che sia gentile ma diretto, sincero e che abbia lo scopo di far progredire l’altro. Ma se l’altro progredirà o meno, quello dipende solamente dalla persona stessa.
E mi è successo varie volte – le posso contare sulle dita di una mano e, ormai, sto arrivando alla seconda – che l’altro non riesca a sopportare un feedback obiettivo. A volte, ciò che diciamo al nostro cliente è così lontano da come egli stesso vede il mondo, e soprattutto da come vede se stesso e il proprio valore, che non c’è spazio per nient’altro. È più facile rifiutare che affrontare la realtà.
Sentirsi dire “Hai mai pensato a quanto, di quello che succede in questa azienda in questo momento, possa dipendere direttamente da te? E quanto tu ci abbia contribuito?” è davvero difficile. È una domanda difficile. Specialmente quando una persona continua a parlare di come gli altri siano sbagliati, di come non siano produttivi, di come non facciano quello che dovrebbero fare, ecc. Poi arriva la frase memorabile: “Non ti ho pagato per questo! Non ho bisogno di sentire queste cose! Questo non è quello per cui ti ho assunto.” E questo è il momento in cui vengono eretti muri di autodifesa. 😀
E succede abbastanza spesso che le richieste di mentoring siano così: “Ho delle persone rotte qui, vieni a sistemarle.” Come se fossi un meccanico. 😊 “Ehi, a questo collega è scoppiata la guarnizione in testa, quell’altro ha le perdite ai tubi, vieni e sistemali.” Ma nel mondo reale, tra persone, non funziona proprio così. Ognuno di noi è inserito in un sistema e il suo comportamento si riflette in esso.
Riuscirà mai una persona a cambiare il proprio mindset e il punto di vista?
Sì, se è disposta a riflettere su di sé, se è pronta a conoscere il proprio ego. L’ego, in questo caso, è davvero il principale ostacolo per poter lavorare nell’area di una risposta moderata e consapevole. È davvero difficile. Io do un feedback che è gentile, ma obiettivo, e l’altro si innervosisce subito. E a quel punto la situazione degenera, perché sono entrate in gioco le emozioni e l’ego. In quello specifico momento è meglio fermarsi, fare un respiro profondo, fare tre passi indietro, sia mentalmente che fisicamente, e dire: “Quello che hai appena detto non mi piace affatto.” E cercare di riflettere sul perché, farsi delle domande e avere il coraggio di esplorare le risposte. Questo è lo strumento che chiamiamo mindset da esploratore. Non è facile adottarlo; si tratta di un lavoro attivo e consapevole.
L’ego è davvero l’inizio e la fine di tutto.
Ti sei mai trovato in una situazione in cui qualcuno non ha accettato la tua critica?
Certo. Ed è normale che accada. Tuttavia, come mentore, mi devo porre una domanda: esiste un’alternativa? Mentire potrebbe essere un’alternativa? Ammorbidire il messaggio? O non dire la verità? Ma non sono stato assunto per questo. Sono qui per dire cose dure con gentilezza, perché forse nessun altro dirà queste cose a quella persona. E se la collaborazione fallisce per questo motivo, va bene così.
Potrebbero i problemi derivare dal fatto che non ci ascoltiamo abbastanza? La comunicazione è ovunque: abbiamo riunioni, telefonate, parliamo, chiamiamo, ma non ascoltiamo davvero cosa ci vuole dire l’altro.
È vero. Oggi c’è molta enfasi sulla comunicazione verso gli altri: come “manipolarli” nel modo giusto, come influenzarli positivamente, come convincerli, come negoziare qualcosa. Siamo costantemente impegnati ad influenzare gli altri. Però non possiamo fare a meno di ascoltare, se vogliamo costruire relazioni che funzionino davvero.
C’è un aspetto che noto spesso, ed è la comunicazione parallela. Tu parli, io ti ascolto, ma in realtà sto solo aspettando che tu finisca per poter dire la mia. Le conversazioni e le interazioni corrono parallele senza incontrarsi. È una caratteristica tipica del modo di comunicare al giorno d’oggi. Uno racconta e l’altro risponde immediatamente: “Beh, io…”. Con questo stile ci sfioriamo senza mai entrare in connessione, e sicuramente non stiamo costruendo una relazione. L’ascolto attivo, o meglio ancora l’ascolto empatico – quello sì che è un livello superiore 😊 – è una competenza che ripaga enormemente, non in termini di guadagno, ma nell’impatto che ha sulle relazioni. E se c’è una cosa che è assolutamente vera, è che la maggioranza dei malintesi, tra le persone nelle aziende o nei team, non nasce dal fatto che qualcuno voglia fare del male o sia coinvolto in un conflitto intenso. Nella stragrande maggioranza dei casi, semplicemente non ci sentiamo, ci facciamo delle idee, e poi, sulla base di queste supposizioni, proiettiamo, agiamo e prendiamo decisioni.
E come dovrebbero organizzare la comunicazione le aziende? In che modo vanno impostate le regole?
Basta porsi le domande come: in che modo inviamo i messaggi urgenti? Via email, Slack, sul telefono? Quanti canali di comunicazione abbiamo? Più di dieci? Rischiamo davvero di impazzire. Più canali ci sono, più grande è il gruppo e più persone lavorano in modalità ibrida, più alta è la probabilità che le informazioni si perdano, causando attriti tra le persone che, però, non nascono da cattive intenzioni.
Ora vi parlo di un esempio reale. Avete una riunione, siete in cinque, di cui due persone sono online, abbiamo dimenticato di inviare l’invito al terzo partecipante. Uno di quelli che era online in realtà non lo era, ma non ce ne siamo accorti. Due sono arrivati in ritardo, uno è uscito prima. A questo punto, una serie di cose sono state discusse durante la riunione, ma non tutti erano presenti nello stesso momento e non esiste un verbale perché, tanto, era inutile. Successivamente alcuni dei partecipanti si scrivono messaggi diretti tra di loro e ciò risulta in un caos totale: chi farà cosa, entro quando e a che punto è il progetto – lo scopriamo solo dopo (e spesso troppo tardi). Questo è il quadro generale secondo la mia esperienza nel mondo di lavoro moderno, come oggi viviamo e operiamo in molte aziende. Ma si tratta di un problema sistemico, che deve essere affrontato a livello di sistema.
A partire da quale dimensione un’azienda dovrebbe iniziare a gestire la comunicazione interna? Quando arriva il momento in cui dobbiamo stabilire delle regole e non ci basta più un gruppo su WhatsApp o un solo canale su Slack?
Il numero di relazioni tra le persone cresce con ogni nuovo membro che si aggiunge. Esiste anche una formula per questo (R = [N x (N-1) / 2]). Insomma, quando aggiungi una persona al gruppo, il numero di relazioni cresce in modo esponenziale.
In altre parole, senza un sistema informativo, un gruppo di circa 8 persone può funzionare bene. In un gruppo di 6-8 persone, siamo in grado di sapere tutto su tutto, se lavoriamo in uno spazio comune. Quando si passa a un sistema ibrido, però, iniziano i problemi, perché le informazioni si frammentano in due spazi. E naturalmente, più canali e strumenti online utilizziamo, più si frammentano anche le informazioni. Iniziamo a perdere il controllo su chi ha parlato con chi, dove e di cosa. È logico che con l’aumento del numero di persone si iniziano a formare dei team, e allo stesso tempo iniziamo a perdere il controllo su dove si trovano le informazioni e a chi sono arrivate.
I veri momenti di rottura si verificano con circa 20, 50, 150 e 400 persone. Il salto da 10 a 20 è davvero enorme, da 20 a 50 è intenso, da 50 a 120 o 150 è folle, da 150 a 300 o 400 è una vera e propria sfida, e da 400 a 1000 ormai non lo percepiamo nemmeno. Da 1.000 a 10.000, poi, è una fase talmente scalata che i sistemi sono già strutturati per gestire gruppi molto grandi, adattandosi praticamente a qualsiasi numero.
Su quali cambiamenti nella comunicazione si dovrebbe concentrare un’azienda in espansione?
È fondamentale costruire la comunicazione gradualmente man mano che l’azienda cresce, in modo che quando le persone saranno 20, 40 o 150, non ci si trova nel caos. Un aspetto tipico da considerare è come decidere quali informazioni inviare a tutto il team e quali solo a determinati membri. Chi è responsabile della comunicazione in ogni reparto e chi è il nostro punto di contatto. Come gestiamo i filtri comunicativi, cosa significa trasparenza, dove raccogliamo le informazioni. Questo è il processo che porta a quello che chiamiamo “gestione della comunicazione”. Con l’aumento del numero di persone, è necessario affrontare anche le differenze culturali. E a partire da circa 60 persone, parallelamente alla gestione della comunicazione e della cultura aziendale, inizia a svilupparsi una cultura politica. Cioè, “chi con chi”, come è distribuito il potere, chi ha il controllo su cosa, chi ha il “pugno di ferro”. Nelle grandi aziende, la politica occupa circa il 40-50% del tempo dei dirigenti di medio-alto livello e del consiglio di amministrazione. Chi riesce ad imporre una strategia, chi licenzia chi. È una grande partita non solo comunicativa, ma anche politica.
Ti occupi di comunicazione nelle aziende da più di cinque anni. Come è cambiata nel corso di questo periodo? È possibile individuare qualche tendenza? Le aziende sono migliorate in alcune aree?
Secondo esperti come Gartner, Gallup e Harvard Business School, ci sono più canali, la comunicazione è più veloce, le informazioni sono aumentate esponenzialmente, ma molte di esse sono irrilevanti o destinate ad un pubblico che non le richiede. In questo panorama, alcuni di noi sono sopraffatti dalle informazioni, che si duplicano come funghi e a volte non sono nemmeno pertinenti. La complessità è aumentata e, di conseguenza, la comunicazione è diventata più difficile da gestire e da comprendere. Jamais Cascio, nel suo framework BANI, ha descritto perfettamente questo mondo moderno, che è opprimente, spesso incomprensibile e che provoca ansia nelle persone. Questa visione rispecchia molto bene la realtà che vediamo nelle aziende: nonostante siano passati decenni, la comunicazione continua ad essere tra le principali aree di miglioramento nei sondaggi sulla soddisfazione dei dipendenti. Molte aziende si aspettano di aver risolto questo problema, ma la realtà è che non è affatto così. 😀 Quando si cerca di capire cosa intendono i dipendenti con “migliorare la comunicazione”, si scopre che non c’è una risposta semplice. La comunicazione può essere vista come troppo presente, troppo assente, non vengono condivisi i dettagli importanti, non viene spiegato in modo corretto il “perché” delle decisioni, ci sono troppi “come” e “cosa” viene fatto, ci sono troppe critiche e pochi riconoscimenti.
In conclusione, la comunicazione aziendale è un tema così complesso che non può essere facilmente incasellato in una risposta semplice. La sfida maggiore risiede nel fatto che, quando si affronta un argomento complesso, come questo, ci vogliono giorni solo per definire i termini e le modalità di discussione.
Un trend evidente riguarda le modalità di comunicazione nei team che una volta lavoravano insieme in presenza. In passato, le informazioni venivano scambiate in maniera informale e, solo in un secondo momento, attraverso strumenti digitali come la posta elettronica. Oggi, invece, i team sono più distribuiti e le comunicazioni si svolgono prevalentemente nella modalità digitale, con molte aziende che hanno adottato il lavoro da remoto o modelli ibridi. In queste situazioni, le informazioni non si trasmettono più in modo lineare, ma vengono mischiate e si intersecano tra più canali. L’aumento della complessità del sistema lavorativo e della struttura organizzativa rende ancora più cruciale una gestione chiara ed efficiente su come, quando e dove avviene la comunicazione.